A meno di un paio di miglia dalla costa di Favignana, in uno specchio di mare che viene notoriamente definito “mare di papà”, esiste una catena rocciosa conosciuta dai pescatori locali come “monte fora” o “monte i fora”, che significa letteralmente “montagna di fuori” (ovvero montagna sommersa posta fuori, al largo, lontano dalla costa).
Una limitata superficie di questa catena montuosa sommersa, con cappello a 34 m e caduta sui 65/70 metri di profondità, è stata esplorata e battezzata come “Secca di Atlantide” da Scipio e Ivan, titolari di un diving che prende il nome proprio dalla secca. “Progetto Atlantide” è uno dei primi diving center nati in Mediterraneo con l’avvento del turismo subacqueo. Con molti anni di esperienza alle spalle, i titolari oggi accompagnano sulla secca solo pochissimi subacquei di un certo livello.
L’immersione alla base del ciglio, tra i 50 e i 60metri, è da ritenersi infatti molto impegnativa, sia per la profondità che per la corrente a volte presente negli strati superficiali, che complica la delicata fase di una risalita sempre con decompressione. Difficile anche l’ancoraggio, per via della corrente e del vento che spesso non consentono operazioni agevoli e una comoda assistenza di superficie. Più semplice potrebbe essere l’immersione sul cappello della secca e i suoi dintorni dove, senza superare i 40/42 metri, è possibile muoversi tra gorgonie, spugne, alcionari, rarissimi echinodermi come la stella gorgone, scorfani giganteschi e qualche grossa cernia ancora tranquilla. Uno spettacolo fuori dal comune, unico in Mediterraneo, ci aspetta però sul ciglio e alla base di quella che, non a caso, è stata chiamata “Atlantide”.
Non avevo mai visto nulla di simile nel nostro mare, neanche sui banchi al largo di Marettimo, nel Canale di Sicilia, tra le coste italiane e africane. Qui tutto è più grande, più vario, stupefacente, quasi incredibile. Una situazione di insolita concentrazione di biodiversità, con ramificazioni di celenterati spettacolari, di dimensioni eccezionali, altrove rari, un sogno per chiunque ami il mare, qualcosa che un subacqueo che si immerge per anni in Mediterraneo con forte passione deve vedere almeno una volta nella vita. Proverò a parlarvene, ma non so se immagini e parole saranno sufficienti.
Ecco il racconto del primo impatto con la città sommersa, “Atlantide”!
Non sono ancora le sei del mattino e la sveglia biologica porta i miei occhi ad aprirsi d’incanto: mi alzo dal letto con calma, in silenzio esco dalla camera per non svegliare figlio e compagna, prendo un caffè e una buona dose d’acqua, sempre importante prima di un’immersione profonda con aria, ed esco accompagnando la porta per non far rumore, armato di attrezzatura fotosub. L’appuntamento con Paolo, mio fedele amico e compagno di avventure sott’acqua, è alle 6,15 al cancello dell’albergo; ci ritroviamo come sempre puntuali e montiamo in bici per raggiungere il diving con poche pedalate (neanche 10 minuti lungo le strade pianeggianti di Favignana). La giornata è buona, il vento debole e il caldo rende l’aria fosca. Alle sette siamo tutti in barca pronti ad uscire, con Ivan al timone e Scipio pronto a guidarci in fondo al mare più bello dell’isola. Lui, che si è immerso un po’ in giro per il mondo, sostiene che questa è una delle più belle immersioni mediterranee, ed io voglio crederci.
Dieci o quindici minuti di navigazione e siamo pronti a gettare l’ancora in un bare blu, dove la luce del mattino ha difficoltà a penetrare. L’ancora giunge precisa nel punto prescelto: aspettiamo per assicurarci che abbia preso e finiamo di prepararci per il grande tuffo. Ed eccoci in acqua, finalmente. Faccio coppia con Paolo, naturalmente, e tenendo d’occhio Scipio, ci catapultiamo a capofitto nel blu, lungo la cima dell’ancora.
Presto si materializza un fondale abbastanza pianeggiante, che non mi aspettavo: una dolce e vasta sella, intorno ai 38/40 metri, che seguiamo e di lì a poco doppiamo, scavalcando il probabile sommo, intorno ai 35 metri, e riprendendo a scendere lungo un ciglio adesso decisamente verticale, in corsa verso quote di tutto rispetto. Paolo ed io ci soffermiamo alcuni istanti tra i 40 e i 45 metri, turbati dalla presenza di diversi esemplari di stella gorgone o astrospartus, appesi alle prime gorgonie rosse e affascinanti come sempre per via dell’insolita forma contorta e intricata (con un complicato groviglio di braccia in movimento); l’acqua è limpida e approfittiamo per scattare alcune foto e fotografarci a vicenda per avere un riferimento sulle proporzioni dell’animale da comparare al subacqueo (alterate comunque dall’effetto grandangolo). Ma il gruppo, con Scipio alla guida, è già andato avanti: dobbiamo proseguire. Dopo un inizio d’immersione già esaltante, specie per la quantità di esemplari di astrospartus incontrate in pochi metri quadri, dirigiamo verso quote maggiori, lungo una parete che osservo in pochi istanti ma che potrei impiegare del tempo a descriverla con cura.
I ventagli delle paramuricee sono enormi, non c’è traccia di mucillagine o danno ai singoli rami, e le gorgonie rosse si alternano a gorgonie bianche (Eunicella singularis) e a gorgonie gialle (Eunicella cavolinii) in un tripudio di tinte che solo adesso, dopo anni di immersioni, riesco a osservare andando oltre la realtà, eliminando l’assorbimento cromatico della profondità e immaginando quei colori come fossero fuori dall’acqua, in piena luce solare. La realtà è ben diversa, le gorgonie son blu, i colori attenuati anche oltre misura, in considerazione del fatto che tra l’altro son da poco passate le sette del mattino.
Tra i rami delle gorgonie vivono altri animali invertebrati che sporgono e si protendo nelle forme più bizzarre: spunge a candelabro arancioni o gialle, spugne incrostanti a guisa di lamina, ancora spugne d’ogni forma e colore e poi briozoi, tunicati e tante, tantissime altre specie che il taccuino di un naturalista resterebbe senza pagine per la quantità di appunti da prendere a voler fare un elenco dei diversi animali presenti. Penso subito: forse manca un po’ il pesce, forse è un caso, ma d’improvviso mi incanto di fronte a un bestione scuro e sicuro di sé, fiducioso come di rado accade: ho di fronte una mastodontica cernia, per nulla impaurita dalla mia presenza. Sono sbalordito per l’atteggiamento non allarmato del pesce e mi avvicino, pronto a scattare una foto; la cernia si muove lenta, si gira su stessa, si sposta un po’ e poi si sofferma ancora a guardarmi. “Scatto – mi dico – adesso scatto… “
In verità non scatto alcuna foto perché penso: posso avvicinarmi ancora, devo avvicinarmi ancora. E cerco di guadagnare centimetri, pochi centimetri, ancora qualche millimetro: ma poi, al momento dello scatto, quello vero, la cernia si gira, ho azzardato un po’ troppo, e il flash la illumina solo quando ormai, di coda, sta intrufolandosi in tana, con tutta calma, ancora una volta pronta a rigirarsi per osservarmi un istante prima dei saluti. “Devo andare, ciao amica cernia, è stato bello lo stesso” - mi dico – e proseguo vedendo Paolo sopra di me che inizia a spostarsi più rapido, alla ricerca del punto più bello dove “gli alberi di Atlantide” si intrecciano e protendono le fitte chiome nel mare scuro, tra i 55 e i 60 metri di profondità.
Il gruppo è sul sommo della secca, sta iniziando il ritorno e li vedo dal basso, Paolo è andato troppo avanti, lo intuisco, comprendo la morfologia della secca e so che li sopra c’è l’ancora. Mi prendo altri cinque minuti per dare uno sguardo poco più giù, dove intravedo un gran ramo di Gerardia savaglia piantato sul fondo in posizione verticale. La distanza diminuisce, sono adesso 56 m, poi 57, e davanti mi appare, smorzato nei toni, lo spettacolo che cercavo da tempo, mai visto prima: il substrato roccioso ospita insieme enormi rami di Gerardia savaglia, a sviluppo verticale (tanti, tra l’altro) e fitte colonie di Antipates subpinnata, il vero corallo nero mediterraneo, la cui presenza è sempre degna di nota per la scarsa diffusione di questa specie nel nostro mare. Il giallo tenue della gerardia e il bianco e grigio dell’antipates si uniscono al rosso carminio delle paramuricee e al bianco e al giallo delle eunicelle, gorgonie che al cospetto di questi veri e propri “alberi del mare” sembrano ora minuscole…
Non ho parole, anzi .., bolle! Ma mi ricordo che sulle spalle ho solo un 15 lt e devo fare la deco. Scatto quindi poche foto qua e là, ancora incredulo di aver visto tanta rara bellezza, e inizio a salire, ritrovando Paolo di ritorno dalla sua corsa alla ricerca del sito fantastico e indicandogli che c’era appena passato sopra senza rendersene conto. Sorvoliamo insieme il cappello della secca e torniamo al vallone per raggiungere la cima dell’ancora; sotto i nostri occhi ancora gorgonie, spugne e astrospartus…
Una lenta risalita e una lunga decompressione ci danno il tempo di riflettere su quanto appena visto. Ma il ricordo e le foto, ne siamo consci, renderanno il momento indelebile a vita (sarà uno di quei racconti che poi, da vecchi, faremo ai nipoti, speriamo…). La prima cosa che ci viene da dire salendo in barca, finita la deco, indovinate qual è? Ma domani possiamo tornare ad Atlantide?
Scipio e Ivan si guardano: questi son pazzi, si saran detti con gli occhi. Ma l’indomani torniamo, sempre alle sette, stesso ancoraggio. Questa volta c’è un po’ di corrente e l’acqua è più torbida. Arrivati sul fondo vediamo subito che la distanza dal sito preciso è maggiore e dobbiamo fare un po’ di strada controcorrente.
Una volta sulla verticale dei “grandi alberi” decido di non esagerare e resto molto poco sul fondo, senza superare i 56 metri. Giusto il tempo per farmi immortalare dietro uno degli alberi più grandi, un ramo di antipates favoloso…
Poi salgo un po’ e mi godo la parete e le gorgonie; vedo qualche aragosta e poi un enorme polpo, con cataste di pietre e conchiglie sull’uscio di casa: lo saluto, lo accarezzo un istante tra gli occhi per sentirne la pelle, e passo avanti. Intanto mi raggiunge Paolo, che ha scattato altre foto dei rami nei dintorni. C’è ancora del tempo, istanti preziosi, per uno sguardo sul ciglio; ma rapidamente arriva il momento di lasciare il fondale e risalire. Ancora una volta Atlantide ci ha accolti senza problemi, nelle prime ore del mattino.
Una volta in barca, soddisfatti della duplice esperienza, ritorno con la mente sul fondo e continuo la mia passeggiata nei boschi tinteggiati di giallo e di bianco, con la fantasia. Ma la voce di Paolo interrompe il mio sogno: la sua richiesta, sfacciata, di fare un terzo tuffo sulla secca, rimbalza sonante sui timpani delle mie orecchie! Non ci crederete: la disponibilità di Scipio e Ivan è tale che l’indomani siamo di nuovo sopra Atlantide. Ma questa volta Nettuno non vuole ospiti: l’ancora si stacca durante la discesa e l’immersione va a vuoto per la corrente sostenuta. Dobbiamo saperci contentare…
Direi che va bene, chi si lamenta! Il privilegio di essere scesi a scrutare sul fondo del “mare di papà” non è cosa di tutti i giorni.
Testi di F.Turano – Foto di P.Fossati e F.Turano
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